Prefazione a il Gioco del silenzio

Prefazione a Il Gioco del silenzio, di Marina Alessandra Intelisano, Editore Greco, Catania, 2008

Immagino quella mattina in cui Marina viaggia da Catania a Caltagirone per prendere servizio alla USL 29. E’ il suo primo giorno di lavoro in un ambiente fino allora sconosciuto come tipologia di lavoro: un Servizio psichiatrico. Penso alla sua fantasia, a come avrebbe immaginato il lavoro con le persone ammalate di mente. Ce lo dice, e ce lo dice molto tempo prima, quando era ancora nell’età, 18 anni, in cui non si conosce il proprio futuro e non si sa cosa si farà nella vita; lo dice quando descrive in questo libro la scena di una donna, “una delle figlie della 180”, alla stazione di Bologna.
Marina descrive in modo empatico ed essenziale la scena e le diverse reazioni manifestate dalle persone:
“..Una donna teneva la gonna alzata fino all’inguine…tutti gli uomini erano catturati dal delirio sessuale di quella umile anima. Alcuni la deridevano …vieni, avvicinati che ti facciamo vedere…; altri la guardavano disgustati, altri con pietà…la mia indignazione cresceva… desiderando… colpire il cuore di quegli uomini, inutili e volgari, ignoranti … Il battito del mio cuore per l’ira si accelerava. Erano tutto lì a guardare lo spettacolo, in prima fila, morbosi, attenti e sbavati. Li odiai, era così forte la mia rabbia che ingoiai le mie stesse lacrime, prime che affiorassero. Volevo dimostrare forza, volevo scendere dal treno e portare via quella creatura. Ma stavo male, tutte le mie forze, quelle poche che mi rimanevano, erano concentrate sulla mia sofferenza. Restai lì, inutilmente offesa, incapace, immobile. Io ero con la mia mamma che si prendeva cura di me, mentre quella giovane trascurata, inconsapevole, innocente, si alzava ogni tanto la gonna…fino all’inguine, il viso era truccato pesantemente e la sua anima sofferente, impaurita dai suoi stessi gesti provocatori. Istintivamente sentii affetto per la sua incoscienza e ancora oggi, quando ripenso alla sua immagine, trema il mio cuore, forse perché era la prima matta che vedevo alla mercè della gente. “Poverina”, qualcuno disse, “E’una prostituta..No, è una pazza” rispose qualcun altro. ” E’ colpa della nuova legge, quella sui pazzi, quella che ha chiuso i manicomi e li ha messi per strada e adesso dobbiamo assistere a queste scene. Lo Stato li ha buttati per strada, senza una nuova casa. Alcuni sono anche pericolosi. Dove andremo a finire?”… ” Perché lo Stato avrebbe commesso un simile crimine? Perché non ha dato loro una nuova casa?”

In questo passo c’è già la capacità empatica, la com-passione, la valutazione e analisi sociale del fenomeno malattia mentale e Marina è chiaramente partigiana, dalla parte del sofferente, del debole, del malato, in cui vede l’umanità, ne rispetta la dignità e si mobilitano in lei istanze protettive e solidali.
La legge 180 allora era “giovane”, scrive Marina. I manicomi esistevano da circa un secolo mentre la 180 aveva ancora qualche anno di vita. I manicomi andavano chiusi perché non più rispondenti ai moderni criteri scientifici di cura:
la concezione dell’uomo e dunque della mente come unità biopsicosociale in cui le componenti biologico-psicologico-sociali sono strettamente embricate e interdipendenti aveva chiuso le polemiche precedenti sulle cause delle malattie mentali tra gli organicisti (sostenitori delle cause unicamente organiche), gli psicologisti (sostenitori delle cause soltanto psicologiche, e i sociologisti
(sostenitori delle cause unicamente sociali). Emegevano dalle ricerche e andavano sempre più rafforzandosi dati che documentavano la caratteristica della plasticità del cervello e un’eziologia multifattoriale delle malattie mentali,
Il manicomio era stato fondato negli anni in cui prevaleva la certezza sulla causa puramente organica della malattia mentale e si cercava il batterio o il gene o l’anomalia metabolica che causava la malattia mentale. Migliaia e migliaia di cervelli nella prima metà del 1900 sono stati dissezionati nelle sale anatomiche dei manicomi alla ricerca della causa organica, senza alcun risultato.
Un autore inglese, E. Gruenberg della Columbia University, nel 1967 pubblicò un lavoro in cui descriveva un quadro clinico di malattia causato dall’ospedale psichiatrico, che aveva chiamato “Social Break-down Sindrome” i cui sintomi clinici erano costituiti da disturbi del comportamento, deterioramento cognitivo, povertà ideativa e simbolica, perdita della capacità di progettarsi, apatia, superficialità e disinteresse. Questi sintomi non erano causati dalla malattia per cui il paziente era stato ricoverato, ma, erano una conseguenza della cura,cioè del ricovero prolungato che aveva determinato un deprivazione sociale e relazionale grave. Questo quadro clinico viene confermato anche da altri autori negli stessi anni e Franco Basaglia lo descrive in un suo lavoro degli anni “60, chiamandolo “ Sindrome da Istituzionalizzazione”. Questi pazienti se dimessi e reinseriti nel mondo sociale a scopo riabilitativo, recuperavano gradualmente le
abilità che il ricovero aveva spento.
Bisognava allora realizzare un’organizzazione territoriale dei servizi psichiatrici, che permettesse al paziente di essere curato rimanendo nel suo contesto sociale, considerando e dando delle risposte anche alle problematiche psicologiche e sociali. Questa è la grande rivoluzione che ha fatto Franco Basaglia negli anni 1971-1978 a Trieste dove organizzò i servizi di cura ed assistenza sul territorio e contestualmente dimise i pazienti dall’Ospedale psichiatrico, inserendoli in appartamenti della città chiamati Case Famiglie. Nel 1975 c’erano a Trieste 25 case famiglia che ospitavano i pazienti dell’Ospedale psichiatrico. Basaglia delineò, prefigurò e anticipò nella pratica quella che poi sarà chiamata legge 180.

In quegli anni a Caltagirone, io vi sono arrivato nel Dicembre del 1982 proveniente dall’esperienza di Verona e di Trieste, avevo appena iniziato una pratica di cura innovativa, con la costruzione di servizi e presidi alternativi al manicomio, per rispondere ai bisogni di salute dei pazienti: ambulatori territoriali in ogni Comune e nei quartieri, visite domiciliari, Day Hospital, Centro diurno, coinvolgimento delle istituzioni sociali (Comune, Scuola, mondo del lavoro, associazioni culturali e di volontariato), costruzione di una rete relazionale e sociale attorno ai pazienti per farli uscire dall’isolamento ed emarginazione, Case Famiglia, primi tentativi d’inserimento lavorativo.
Marina è arrivata a Caltagirone nel 1991 quando eravamo nella fase più impegnativa del coinvolgimento delle istituzioni sociali per il superamento dello stigma. Utilizzavamo gli spazi sociali per le nostre attività: la palestra comunale e del Commerciale per la ginnastica e le attività motorie, il teatro “Brancati” per i recital di poesia e le attività teatrali, Marina allora, nelle belle giornate estive, faceva il Gruppo giornale con i pazienti alla Villa Comunale di Caltagirone; ricordo il lavoro di mesi in cui fu impegnata quando realizzò con i nostri pazienti una rappresentazione teatrale alla piazza di Santo Pietro facendo scegliere il personaggio da recitare agli stessi pazienti e facendo preparare a loro i costumi che avevano scelto di indossare; coinvolse financo i carabinieri della locale stazione che, solidali, parteciparono all’attività con le loro divise e furono scambiati come attori in costume.
Col nostro operare abbiamo contribuito alla trasformazione della cultura della città nei confronti delle persone ammalate di mente. Alla paura iniziale nei confronti del malato mentale, che derivava anche dal fatto che i malati di Caltagirone venivano allontanati e chiusi nel manicomio di Palermo, si è sostituita gradualmente prima una curiosità, poi una simpatia. Ciò è stato possibile perché le persone con malattia mentale ora abitano in città e vivono la vita della città insieme a tutti gli altri: vanno a scuola, fanno teatro, lavorano, s’incontrano per strada, al bar, in pizzeria,al cinema, alle feste cittadine, al mare e allora la gente, vedendoli in carne ed ossa, nella loro realtà, con i loro problemi, che poi sono anche comuni a molte altre persone sane, si è accorta della insensatezza e della assurdità dello stigma e del pregiudizio.

La psicosi comporta il travalicare il limite tra mondo esterno a noi e mondo interno di noi, la fantasia si confonde con la realtà, diventa realtà, l’irreale viene vissuto fantasmagorigamente come vero, il prezzo da pagare è alto, ma non interessa alla persona ammalata in quanto non ne ha coscienza.L’importante è avere l’illusione della realtà, e non il contrario, prendere coscienza che i nostri pensieri e le nostre fantasie sono illusioni e irreali, ciò sarebbe insopportabile per la coscienza.
Ed ecco la malattia psicotica diventa un modo di difesa dell’Io di fronte a una realtà che ci sovrasta, ci angoscia e di cui sfugge il senso e il controllo, una difesa inadeguata, un modo a volte provocatorio, bizzarro e sconveniente, un modo che a volte frammenta l’Io sino a dissociarlo totalmente dalla realtà; ma pur tuttavia una difesa, un tentativo estremo per non soccombere del tutto, per questo la persona che soffre di psicosi è una persona fragile, che fa tenerezza, impietosisce e impaurisce allo stesso tempo, ci suscita sentimenti contrastanti.
Il modo, però, per aiutare a guarire queste persone c’è , sono le terapie integrate e multimodali, terapie farmacologiche, psicoterapia, socioterapia, inserimenti scolastici e lavorativi, relazioni di affetto, l’aiuto a storicizzarsi, a progettarsi un futuro, dare un senso alla vita di tutti i giorni. Queste terapie, coordinate bene dagli operatori che effettuano la presa in carico della persona ammalata, riescono a dare ottimi risultati con la guarigione e la remissione della malattia psicotica in una percentuale altissima, più dell’80% dei casi, come viene stimato dalle ricerche più recenti che evidenziano come fattore fondamentale per la guarigione la variabile “Qualità della vita”.

Leggere ora nel libro di Marina le storie dei pazienti che abbiamo curato insieme mi ha suscitato forti emozioni. Mi sono chiesto da dove derivassero queste emozioni, certamente non dalle loro storie che conosco, ma dal linguaggio che usa Marina, dal suo stile fresco, leggero, comunicativo, affettivo. Parla in prima persona, “Io”, scommette se stessa in questo modo e si sottopone a giudizio e a critica, non è neutra, ha un alto senso dell’etica che pone a fondamento e regolatrice dei rapporti tra le persone.
La sua è una poesia in prosa, alla stregua della bellissima prosa poetica di Giovanni Papini, ma la sua sensibilità femminile la iscrive tra le più significative scrittrici del nostro secolo capaci di una profonda e analitica introspezione Il suo scrivere è un immergersi nelle storie dei pazienti, riuscire a identificarsi con loro ma poi uscire dall’identificazione per aiutarli. E’ un colloquio-soliloquio-colloquio. Lo stimolo del paziente la coinvolge, attiva in lei i ricordi, discorre con se stessa, s’interroga sul significato della vita, della malattia e della morte.
La scrittura, parola dopo parola, pensiero dopo pensiero, immagine dopo immagine, si sdipana immettendoci in un’atmosfera rarefatta e gioiosa dove anche ciò che è pesante e angoscia, in grazia di questa atmosfera, perde la sua drammaticità.
E’ la capacità di proiettare sulla vita il desiderio e la bellezza del vivere pur nella sofferenza, è la capacità a riuscire ad essere se stessi,comunque e dovunque, a non ingannare gli altri e se stessi, ad ascoltarsi, a conoscere il proprio mondo desiderante e capire cosa possiamo realizzare di esso. Da questo punto di vista le esperienze riportate in questo libro possono illuminare e insegnare a vivere meglio.

Caltagirone, Giugno 2008